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Come le madeleine per Proust

Autore: Rita Bellati - Data: Febbraio 20, 2017

Quanto meno ho fretta di trovare una definizione per identificare di quello che sono e faccio, tanto più mi rendo conto di aver bisogno di approfondire aspetti di me per non arrivare alla soluzione “in astratto” (perché professionalmente a quella definizione io voglio arrivarci).

Sabato ho tenuto il mio primo corso Live su Instagram. Ci ho messo tanto a prepararlo perché doveva essere qualcosa di più dell’ebook, doveva offrire alle persone la possibilità di osservare, comprendere, ipotizzare, riflettere, praticare e confrontarsi. Come è accaduto per la scrittura dell’ebook però, insegnare agli altri è una grandissima occasione per approfondire quello che sappiamo o pensiamo di sapere.

Utilizzo le immagini per comunicare ormai da più di un anno, ho trovato nelle immagini e in Instagram un canale privilegiato per parlare di me, per raccontare i miei prodotti e il mio lavoro, quello che però non avevo mai fatto era cercare di capire quale fosse la “pozione magica” della mia comunicazione visiva, del mio modo di lavorare, quella che Jennifer Lee in Building your busines the right-brain way definisce come parte della definizione della nostra mission, del “perché fai quello che fai”. J.Lee fa proprio questa domanda:

“Se potessi riempire una bottiglia con una pozione magica che ha il potere di migliorare la vita delle persone, cosa farebbe di preciso quella pozione? Come la chiameresti?”

Lei si riferisce alla nostra attività in generale, ma io credo che questa domanda sia perfetta anche per stabilire quale esperienza vogliamo trasmettere a chi guarda i nostri contenuti visivi.

Così, mentre preparavo le slide per il corso Live che ho tenuto sabato e per far lavorare la ragazze sulla finalità della loro comunicazione visiva, mi sono dovuta fermare a chiedermi “qual è la pozione magica della mia comunicazione?”; ho provato a rispondermi in vario modo: “far ricordare, far immedesimare, far tornare bambini…”, ma mi pareva tutto poco “magico”.

Poi, sotto ad uno dei miei post su Instagram è stata pronunciata una parola che ha acceso una luce facendo immediatamente chiarezza: Madeleine.

Ho ripensato a quel famosissimo episodio che racconta Proust legato al sapore di questo meraviglioso dolce e che mi ha fatto capire che quello che desidero risvegliare nella mia comunicazione visiva non è un ricordo fine a se stesso, ma un ricordo che veicola un cammino e quindi diventa un’esperienza:

“Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio….”

[Da “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust]

Ecco, desidero che la mia comunicazione visiva sia come le Madeleine per Proust dove “la verità non è in essa ma in me [e in voi]”.

Ce la farò? Non lo so, ma ci voglio provare.

Come si chiama la mia pozione?

io la chiamerei “Ricordanze”

Madeleine-comunicazione-visiva_myselfie cottage

 

Vi siete mai chiesti quel è la “pozione magica” dei vostri prodotti o del vostro modo di comunicare?

E’ qualcosa di bellissimo da scoprire, ve lo consiglio, perché ancora una volta aiuta a non ricalcare uno stile, o una proposta ma a trasformarla rendendola propria.

p.s. non sono riuscita a trovare la foto e il commento di cui parlavo sopra, ma ringrazio infinitamente la ragazza che l’ha scritto.

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Categoria: Instagram & Co.

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