La prima volta che ho sentito parlare di Target era nel 2014, quando con in mano le mie mollette Myselfie cercavo di capire cosa volesse dire davvero vendere un prodotto online. Avevo letto tutti i blog e le newsletter in cui si parlava di questo tema e avevo risposto a tutte le domande utili per delineare bene questa persona a cui avrei dovuto vendere il mio prodotto. Sono tornata sul tema del “cliente ideale” ogni volta che ho affrontato un corso formativo e mentre cresceva la mia consapevolezza sull’utilità di questo passaggio, cambiavano anche gli strumenti per fare ricerca, si passava piano piano dal puntare lo sguardo su caratteristiche demografiche a dettagli ed elementi che appartenevano alla sfera emotiva e comportamentale.
Io, mentre seguivo alla lettera le indicazioni, mi sono accorta che faccio sempre nello stesso modo: applico in modo molto preciso, quasi rigido, quello che mi viene detto fino a che non individuo i punti deboli – per me – di quel metodo e da lì costruisco il mio.
Nel caso del target ho sempre risposto con ferma decisione a tutte le domande tipiche da “questionario sul target” e ho lavorato più e più volte alla mappa dell’empatia, ma solo di recente sono arrivata a identificare cosa mi stava stretto e credo che la svolta sia stata la pandemia e il lockdown.
Quello che fai serve davvero a qualcuno?
Nei mesi di lockdown tornava incessante una domanda: “ma in queste condizioni, a questo punto, vale la pena che io continui a proporre i miei prodotti/servizi?” perché in momenti di grande crisi i nodi vengono al pettine e quello è stato il momento in cui ci siamo dovuti chiedere se quello che facevamo aveva davvero senso.
Ho visto molte persone che si sono fatte questa domanda, troppe che hanno fatto finta di niente – perlomeno in apparenza – e alcune che in modo troppo istintivo hanno detto “le cose che contano sono altre”. Io mi sono fermata un attimo a guardare e ho capito che quello era un momento decisivo, in cui qualcosa sarebbe cambiato radicalmente.
Troppo spesso abbiamo creato prodotti e servizi a partire solo da una nostra idea e sebbene le idee molto spesso nascano come risposta a input esterni, che in modo più o meno palese ci suggeriscono un bisogno, dall’altra siamo talmente attaccati alle nostre idee – e al nostro profitto – che invece di chiederci se quell’idea davvero è una risposta ad un bisogno esistente, forziamo la mano e quel bisogno lo creiamo noi.
Non esistono ragioni di principio per cui un prodotto o servizio abbia il diritto di esistere, non valgono le considerazioni ideologiche del tipo “di questi tempi non abbiamo bisogno di nuovi abiti, le priorità sono altre” – perché magari quell’abito proprio in quel momento può svoltare l’umore di una giornata di lockdown -, abbiamo bisogno di imparare ad ascoltare davvero i bisogni che esistono, sopiti o meno, ma reali.
Ci è chiesto di rimettere al centro della storia il nostro cliente e quello che sta vivendo, i suoi desideri, le sue aspirazioni e a quel punto verificare la sovrapposizione dei suoi bisogni con la nostra proposta/soluzione.
Abbiamo passato troppo tempo a mettere al centro delle conversazioni noi e la nostra idea, quando il protagonista della storia è un altro: il nostro cliente; che sia reale o potenziale non conta, quello che conta è restituirgli lo spazio di valore che si merita perché una cosa è certa, le nostre idee possono essere brillanti, ma se non sono una risposta ad un bisogno reale, con il tempo smetteranno anche di essere brillanti.
Un servizio da mettere in discussione: Soggiorno al Cottage
La prima edizione di Soggiorno al Cottage è avvenuta in piena pandemia e proprio in quei mesi io mi sono accorta di quanto fosse per molte la risorsa migliore che si potesse avere in quel momento. Ma un conto era essersi iscritte quando del Covid non si sapeva nulla (ottobre 2019), un altro era dover proporre questo percorso alla fine del 2020 e all’inizio della seconda ondata, quando la paura, l’incertezza e l’esperienza già vissuta stavano gridando a gran voce “non fate nulla che meglio”.
Lì è dove mi sono dovuta chiedere cosa davvero stavo offrendo, lì era dove la mia proposta non poteva essere forzata, non poteva appoggiarsi sua una mia esigenza, quello era il momento di verificare se al centro della mia proposta c’era il mio di bisogno o quello della persona per cui era nata quell’idea.
Ed ecco che davanti a queste domande ho scoperto che non mi bastavano le considerazioni demografiche o psicografiche sul mio target, in quel momento dovevo rimettere al centro della storia il mio cliente, lui (lei nel mio caso) doveva diventare l’eroe della mia storia.
Così, seguendo questa intuizione, ho rimesso in discussione tutto prendendo in mano uno strumento che ho sempre utilizzato in parte per fare delle riflessioni sui miei servizi: la struttura del viaggio dell’eroe, quell’insieme di fasi che caratterizza qualunque storia narrata e che in quel momento diventava la base del mio metodo di studio del target.
Se davvero Soggiorno al Cottage era una proposta valida anche in quel momento la mia cliente doveva attraversare tutte quelle fasi e così ho fatto una prova, ripercorrendo in un video (brutto) inviato a Serena – nuovo pilastro del mio lavoro – tutte le fasi del percorso sovrapponendole a quelle del viaggio dell’eroe (ndr. nella descrizione del video su youtube ci sono spiegati alcuni termini e nomi citati).
Tutto tornava, la mia proposta rispondeva ad un bisogno reale anche in piena pandemia, ma oltre a questa scoperta, facendo quel percorso avevo trovato il mio metodo di studio del target, si trattava solo di semplificarlo e offrire un processo che fosse adatto a chi non va d’accordo con i metodi tradizionali e strutturati.
Ed eccolo qui:
In un tempo dove tutto sembra dirci di guardare solo a noi io credo che invece sia il momento giusto per richiederci se le nostre idee sono al servizio di qualcuno e quindi di un cambiamento davvero desiderabile.
L’eroe del nostro lavoro non siamo noi, ma il nostro cliente, è la sua di storia che dobbiamo raccontare.

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