Correre: Avanzare rapidamente in modo che in nessun momento i piedi tocchino terra contemporaneamente
Ho iniziato a correre lo scorso anno, non l’avevo mai fatto in vita mia e non avevo alcun interesse fisico nel farlo. Ho iniziato a correre perché ho letto Murakami e Rayan Holiday e, pur avendo un marito personal trainer, non mi era mai sembrata un’opzione interessante fino a che non è entrata nel mio orizzonte la possibilità che correre facesse bene al mio lavoro prima ancora che al mio corpo.
Lo dico così, schietto-schietto perché io credo che sia finito il tempo dei consigli di benessere e dei “metodi sicuri per stare bene”, da quando mi muovo nel territorio dei talenti ho capito che esistono i metodi e poi esistono le persone, che è bene sapere i metodi ma solo ad una condizione: che ciascuno trovi, tenga e adatti quello che gli serve a seconda del proprio modo di “funzionare”.
Perché ho iniziato a correre
Dicevo della corsa. Ho iniziato a correre perché Murakami e Holiday (e molti altri) dicono che li aiuta a scrivere, e io, che a quel tempo sentivo un fortissimo bisogno di disciplina nella scrittura, ho deciso di provare a verificare la loro teoria. Ho fatto la stessa cosa con Robin Sharma e con il suo metodo 5 o’clock, perché mi sembrava molto adatto alla mia vita e al mio bisogno (poi avrei una bella serie di perplessità legate a questo libro) e mettendo insieme tutte queste cose mi sono svegliata ogni mattina alle 5 (weekend esclusi) andando a correre superando la mia paura di rimanere senza fiato.
L’ho fatto seguendo una scheda di lavoro di mio marito e sapendo che avevo come obiettivo, un obiettivo “mentale”, non fisico. Mi ero però data dei tempi e uno spazio: in 20 minuti dovevo fare un doppio giro dell’isolato (3km circa). Per superare la paura della mancanza di respiro sceglievo un pensiero/progetto/idea e mi focalizzavo su quello.
Mi sembrava mi fosse utile, ma non sapevo se fosse autosuggestione o reale beneficio; poi ad un certo punto ho smesso (non mi ricordo neanche quando di preciso) perché è arrivato l’inverno, il freddo e il buio e io sono andata in letargo.
Cosa è successo quando ho smesso di correre (e di scrivere)
A gennaio, come ho avuto modo di raccontare, mi sono rimessa al lavoro sul blog e con mia grande sorpresa non sapevo più scrivere. O meglio, avevo completamente perso quella capacità di mettermi seduta e iniziare a scrivere e cancellare le frasi fino a che il flusso non partiva e io seguivo il suo scorrere.
Mi sono chiesta più volte cosa fosse successo, come fosse possibile che in alcuni momenti della mia storia professionale (penso agli anni tra il 2017 e il 2019) io fossi in grado di scrivere 4 post in una mattinata e di pubblicarne uno a settimana mentre ora non ne riuscivo a terminare neanche uno in 3-4 ore.
Cosa era cambiato?
Era cambiato il mio modo di comunicare il mio lavoro: quando mi ero resa conto che in un canale come Instagram era molto più “di successo” un post in cui ritraevo me o i miei figli e dicevo poche cose, anche profonde, ma brevi e soprattutto personali, avevo inconsapevolmente deciso che quella comunicazione andava bene, era quella giusta e così ho iniziato a frammentare. Frammentavo me, i miei pensieri, le esperienze, le considerazioni.
Ecco cos’era successo, la mia presenza era spezzettata, ma anche difficile da ricomporre, i pensieri rimanevano tali e se pubblicati diventavano brevi e sintetiche considerazioni che dovevano avere senso da sole, slegate dal contesto perché il contesto non era quello che creavo io, ma quello che veniva creato da un insieme di fotogrammi provenienti da mondi diversi dal mio.
Siamo un intero
Sapete come ho fatto ad accorgermi di quello che era successo? No, non mi sono a fare grandi sessioni riflessive, non ho chiesto una consulenza strategica, ho semplicemente cercato di ricostruire quell’insieme di abitudini che mi sembrava mi aiutassero a riprendere disciplina nella scrittura, ho deciso di rimettere la sveglia alle 5 e uscire a correre; ed ecco che è iniziato un processo di ricomposizione ed ecco che piano piano la scrittura ha riniziato ad essere più fluida così come la facilità di stare dentro al pensiero e di trovare argomenti da sviluppare.
Mi è sembrata una cosa incredibile e ho pensato che ci rompiamo vicendevolmente le scatole dicendoci che “dobbiamo fare esercizio fisico”, ma non ci diciamo che la ragione è per non essere frammentati, per essere tutti interi e presenti, perché corpo e mente lavorino allo stesso scopo: fare bene il nostro mestiere (inteso come professione, ma anche come vita)
Dopo il primo giorno di ripresa della corsa ho sentito tutta la paura della perdita del fiato che mi aveva sempre bloccato e rientrando a casa ho chiesto a mio marito se non potessi camminare invece che correre e lui mi ha risposto così “certo che puoi camminare, per l’obiettivo per cui lo fai – liberare i processi mentali – basterebbe camminare, ma il nostro corpo è fatto anche per correre, quindi non facendolo lo priveresti di una possibilità e avresti una conoscenza parziale di quello che può fare. A differenza dello scorso anno potresti semplicemente ascoltarti di più dandoti il permesso di correre ancora più piano”.
Mi è sembrata una risposta interessante perché avevo un’alternativa (camminare) utile al mio scopo, quindi non sentivo una forzatura ma contemporaneamente potevo decidere se accettare o meno una possibilità. Potevo correre piano, anzi pianissimo per conoscermi un po’ di più.
Non corro perché sono un’atleta, non corro per migliorare la mia performance, corro perché sono un essere umano e voglio esserlo tutta intera.

Questa scoperta circa il legame tra corpo e mente non è una scoperta mai sentita (lo dicevano i greci, poi abbiamo deciso curare il corpo solo per vanità), ma è quella che mi ha fatto capire il senso del costruire delle abitudini (più o meno strutturate) e della necessità di avere all’interno del nostro concetto di “giornata” uno spazio dedicato all’esercizio fisico, un esercizio che non è “cura del corpo” ma cura della nostra interezza.
C’è un manuale che aiuta a lavorare sulle abitudini, sui programmi e sugli strumenti perché il nostro lavoro sia espressione di questa capacità di essere tutti interi.
Si chiama Adagio e se vuoi lo trovi qui:

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