Sabato scorso ho terminato il corso di fotografia che stavo frequentando da febbraio (con immensa gioia di mio marito che non vede l’ora che io riprenda il mio posto in casa).
Guardando le mie foto, mi verrebbe da dire che non è stato molto utile (la fotografia contiene così tanto che un corso di 30 ore è decisamente insufficiente). C’è però una cosa per cui sento che ne è valsa la pena: aver scoperto cosa vuol dire per me fotografare.
Di per sé fotografare significa semplicemente scrivere con la luce, e come in qualsiasi forma di scrittura questa può fermarsi alla cura estetica del segno (più o meno bello) oppure trasmettere anche un senso, contenere un significato. Ecco, la decisione di iscrivermi ad un corso di fotografia è nata come desiderio di andare aldilà del segno, di andarci dentro fino in fondo, di conoscerlo per poi trovarne tutto il senso; sentivo che non avevo solo bisogno di imparare una tecnica, ma anche una modalità di guardare, di usare gli occhi penetrando quello che vedevano.
La cosa strana – e in parte bella – è che arrivo alla fine del corso senza poter dire “io so fotografare”, perché ho fatto una scoperta clamorosa (almeno per me): quanto più imparo a conoscere la luce, a riconoscere elementi compositivi, forme, pattern, configurazioni in quello che vedo, tanto più diventa desiderabile che tutto di me ne colga il senso. E’ come se la sola capacità visiva sia per me insufficiente: non riesco più solo a guardare per cercare una perfezione compositiva, ma ho bisogno anche di chiudere gli occhi per respirare un profumo o sentire un rumore, perché io sia interamente presente per raccoglierne il senso e poterlo quindi trasmettere.
Ecco allora che ancora una volta ho capito la mia (la nostra) grandezza: solo un essere meravigliosamente grande può entusiasmarsi nello scovare forme dove apparentemente non c’è nulla, e desiderare anche un dialogo intenso tra sé e quello che vede. Ero partita desiderando che gli occhi vedessero meglio e ho scoperto che per vedere sul serio occorrono tutti i sensi.
Ormai lo sapete, sono una persona particolarmente riflessiva, ammetto che ho sempre cacciato i sensi in secondo piano, privilegiando la cura di spirito, cuore, mente, potete quindi immaginare quanto questa scoperta mi abbia cambiata: sapere che per arrivare dritti dritti alla nostra misteriosa grandezza occorre anche ciò che di meno spirituale abbiamo, i nostri sensi, significa scoprire che TUTTO DI ME HA VALORE, e questo mi riempie di gratitudine e di tenerezza verso me stessa.
Sono davvero grata di aver scoperto questo metodo perché va aldilà della resa fotografica, ti fa guardare e godere della tua quotidianità senza forzarla in modo artificiale arrivando ad amare anche l’antiestetico, le briciole della tovaglia, i panni da piegare, i giochi sparsi; tutto, tutto diventa amabile.
Chissà che nel tempo questo non mi aiuti anche a fare foto migliori, ma so che questa sarà solo una conseguenza.
p.s. ci sono quattro modi con cui sto esercitando questo metodo:
- quando gli occhi sono colpiti da qualcosa li chiudo per amplificare la percezione degli altri sensi. Quando li riapro è come se ogni cosa avesse il suo spazio espressivo.
- ritaglio, salvo, faccio screenshot alle foto che trovo in giro e che mi colpiscono e con i miei bambini cerco parole per descriverle; per i bambini la realtà è ancora un tutt’uno e loro sono meravigliosi perché davanti a foto come queste qui sotto tirano fuori parole come “morbido, liscio, profumato, neve, gioia, freddo, sorriso, guardare, risveglio, sfumature…”e questo mi aiuta tantissimo a collegare quello che l’occhio vede a quello che il cuore sente

3. Guardo i fotografi veri (al momento sono totalmente immersa in Vivian Maier )
4. Uso il mio eserciziario preferito

A presto!