
Questa sequenza di post è la trascrizione di una serie di newsletter che ho inviato quando ho deciso di disconnettermi per due mesi da Instagram. E’ una sequenza piuttosto lunga (circa 15 minuti di lettura) ma è anche l’introduzione necessaria a quello che “scoprirai” alla fine, quindi ti chiedo per favore di ritagliati del tempo per poter leggere tutto. Buona scoperta

Senza Instagram non esisti
Tempo di lettura: 3 minuti circa
Sono partita da questa ipotesi – quella del titolo – quando ho deciso di disconnettermi da Instagram per due mesi e la chiamo ipotesi perché è una frase che ho sentito talmente tanto spesso da accettarla come plausibile.
Ovviamente non sto parlando dell’esistenza in senso lato, ma dell’esistenza legata alla mia attività lavorativa (anche se temo che per molti valga anche in senso lato) quindi forse traducendola in una forma meno assoluta l’oggetto di questa mail poteva essere “se non sei su Instagram la tua attività muore”.
Per una che ha scelto Instagram per fare i primi passi nel mondo della formazione è una frase che avrei dovuto accettare e diffondere di buon grado, ma sto diventando sempre più allergica ai dogmi fuori da una fede religiosa e così ho deciso che volevo mettere alla prova quell’affermazione sapendo che questa scelta non avrebbe comunque messo in discussione il mio insegnamento riguardo a quel mezzo di comunicazione.
Dopo qualche tempo posso iniziare a formulare alcune riflessioni che oggi, mentre scrivo mi sono saltate in testa dopo aver ascoltato alcuni interventi per preparare le Slide per delle lezioni che devo tenere allo IED sul Personal Branding.
[Ah sì, dimenticavo di dirti che dentro a tutto questo desiderio di disconnessione e solitudine mi sono ritrovata senza solitudine e con 4 bambini/ragazzini in giro per casa 24/7 (Coronavirus non ti avevo considerato)].
Prima di arrivare alle riflessioni ho scritto su un foglio una lista di pro e contro sullo “spegnere Instagram” e da lì è nato tutto il flusso di pensiero successivo:
In estrema sintesi, questi sono i PRO:
- Maggiore concentrazione (se non fosse che poi c’è il Coronavirus e non ti concentri più fino a che non capisci che devi stravolgere i piani e lavorare con il fuso orario di CapoVerde)
- Diminuzione di condizionamenti creativi e di pensieri all’interno di una bolla ristretta (perché ad un certo punto capita di pensare che il mondo sia Instagram)
- Annullamento dello stress da pubblicazione (perché se hai un account attivo c’è sempre quella vocina che ti ripete “hei anche oggi non hai pubblicato nulla)
- Jomo (Joy of missing out) che è il contrario della FOMO(fear of missing out) e cioè quella bellissima sensazione di libertà nel non sapere di cosa sta parlando/facendo la gente su Instagram.
- Selezione accurata delle fonti di informazione.
I CONTRO invece sono di altra natura:
- non c’è più la comunicazione real time con chi ti segue che oggettivamente permette un promemoria costante della tua presenza;
- Viene meno quell’aggiornamento riflessivo in stile “microblogging” che è il modo più immediato con cui ultimamente avevo scelto di comunicare su IG;
- Diminuiscono le vendite “reattive” date dalla costante presenza e dal ripetuto rimpallo di acquisto e prova sociale del fatto che i miei siano prodotti/servizi molto apprezzati.
Quando ho messo nero su bianco queste due liste mi sono resa conto che una parte andava a salvare la mia creatività e l’altra poteva mettere a rischio la mia attività “lavorativa”.
Così mi sono detta “o questo tempo porta frutto e quindi potenzia la creatività mantenendo la sua componente comunicativa o mi tocca ammettere che senza Instagram non esito”. Ma io sono una tipa testarda e ho deciso di provare ad esistere anche senza Instagram. Come? te lo racconto nei prossimi passaggi qui sotto.
Tempo di lettura: 3 minuti circa
Il pensiero di spegnere Instagram e la decisione di farlo hanno occupato un lasso di tempo di qualche ora. Non c’era nessuna pianificazione se non il sollievo nel constatare che quella necessità coincideva con un periodo in cui non dovevo lanciare nulla di nuovo.
Ma procediamo per gradi:
Dopo i primi giorni di bambini a casa causa Conronavirus e di lavoro spezzettato e inconcludente mi ritrovavo costantemente deconcentrata e incapace di fare altro se non scrollare IG alla ricerca di una valvola che facesse “il vuoto” nella mia testa. Non amo i periodi così e fortunatamente mi accorgo facilmente di quello che sta accadendo in modo tale da riprendere il controllo del mio tempo. Così il giorno in cui ho spento Instagram è stato anche il giorno in cui ho deciso di farlo.
L’intuito per me sta diventando il mio primo senso e quando mi dice con convinzione qualcosa lo ascolto e basta, anche a costo di ritrovarmi incastrata e di dover trovare una via d’uscita da quell’intoppo. L’intuito diceva di spegnere e io ho spento.
Totalmente inconsapevole di quello che stava per accadere, mi sono ritrovata con il lavoro ribaltato (non per Instagram che non c’era più e di cui non ho avvertito la mancanza neanche un istante, ma per le misure del Coronavirus) e io mi sono più volte sentita bloccata.
Mi capita sempre quando mi immergo totalmente nelle “mie letture” di ritrovarmi persa in un loop di informazioni dove un libro manda ad un altro che poi manda ad un caso studio che mi manda altrove. E’ una specie di labirinto dell’apprendimento che però ti lascia con quella sensazione di sospensione, come se tutte quelle informazioni e quegli input non riuscissero a darsi un appuntamento in un posto per trovare insieme la via d’uscita.
Mentre lavoravo ad alcuni contenuti che sto raccogliendo per le mie lezioni allo IED e dopo aver ascoltato un podcast di Scandellari sul Personal Branding, finalmente dopo qualche giorno i pensieri si sono dati appuntamento in un posto che è proprio qui dove stai leggendo. Senza entrare nel merito della lezione, mi sono resa conto che la comunicazione, il racconto di me è da sempre la modalità con cui scopro chi sono, con cui stabilisco una relazione profonda con te, con cui alimento il mio desiderio di imparare e migliorarmi e con cui mi metto alla prova costantemente cercando nuove strade. Ecco credo che quest’ultima sia l’esigenza che ha mosso la decisione di staccarmi da Instagram e cioè quella di uscire da quella routine comunicativa cercando una strada per raccontarmi lo stesso, come se quello spazio non fosse più sufficiente per tutte le cose che voglio dire.
E così la domanda che mi sono fatta non era più “posso esistere senza Instagram”, ma “voglio esistere senza Instagram, quali altre strade posso cercare?” Ne ho trovate diverse ma solo tu puoi scegliere se seguire o meno. Al prossimo step ti mostro la strada, qui volevo solo fare chiarezza.
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Ieri mentre leggevo un post di D’Avenia su Facebook ho sentito una sintonia profonda con quelle parole nonostante io non sia un’insegnante “da cattedra” così ho dovuto fermarmi per capire il perché di quella sintonia.
Nelle vacanze di gruppo che ho fatto lungo tutta la mia adolescenza e giovinezza era tradizione che durante le escursioni in montagna si percorresse un tratto di strada in assoluto silenzio (eravamo 800/900 ragazzi quindi immagina che strano spettacolo).
Spesso gli organizzatori sceglievano il momento di silenzio in concomitanza con il tratto più faticoso di cammino e io mi incavolavo moltissimo perché sapevo che la chiacchiera con le amiche mi avrebbe distolto dalla fatica alleggerendola molto. Eppure se ci penso bene, tra tutti i ricordi di quelle escursioni ho impressi nella memoria proprio quei tratti di percorso, quelli lungo quel sentiero scivolosissimo nel bosco dove filtrava una luce pazzesca (quella che io chiamo “la luce con la polverina”), o quel tratto sulla costa a strapiombo che mostrava tutta la catena del Bianco, o ancora il pezzo di strada tra i crepacci che facevano una paura tremenda ma che svelavano il colore azzurro del ghiaccio. Dopo quei tratti di silenzio ognuno di noi usciva da quell’immersione pieno di quel pezzo di strada e di quella sana fatica che trasforma anche la chiacchiera che veniva dopo.
Così proprio in questi giorni ho capito che la mia relazione con te ha bisogno di tratti di silenzio per poterci ritrovare e continuare il cammino insieme. Eccola allora la sintonia con D’Avenia: il mio modo di insegnare non credo sia molto tradizionale perché è come se io e te fossimo di fianco e io dopo un tratto di cammino silenzioso guardando il tuo stesso panorama avessi il desiderio di farti notare alcune cose, non perché le sappia già, ma perché le sto scoprendo cammin facendo e proprio grazie a quei momenti di silenzio. L’assenza da Instagram è proprio quel tratto di strada in silenzio e la possibilità di ritrovarti qui dopo l’immersione è quello che permette a me di dirti cosa sto guardando e cosa sto vedendo, non dall’alto della mia conoscenza, ma dal profondo della mia ricerca.
Ed eccoci arrivati al dunque di cui ti vorrei parlare da quando ho iniziato questa conversazione con te: in questo periodo sto percorrendo strade di pura esplorazione senza previsione dell’esito e ti vorrei dare accesso a questa esplorazione nel tempo stesso in cui avviene. Nel prossimo step ti do le chiavi per aprire questa “strana porta”.
Un abbraccio.
**p.s.** Dopo aver letto il post di D’Avenia ci ho pensato su a lungo e alla fine, dopo essermi accorta che non ero d’accordo su tutto, gli ho scritto. Quasi sicuramente non la leggerà e certamente non risponderà, ma vorrei condividere con te quello che gli ho scritto:
Caro prof D’Avenia, le scrivo sollecitata dal suo post su Facebook di ieri sulla fatica (e forse il controsenso) di un insegnamento a distanza.
Da principio mi sono trovata molto d’accordo con quello che scrive e dice, ma poi sono andata un po’ più a fondo e mi sono dovuta confrontare con il mio lavoro: io lavoro online, mi occupo di formazione e consulenza e tutti i giorni devo decidere che spessore dare a quelle relazioni che mancano di contatto. La sfida del Coronavirus e del lavoro a distanza mi sembra sia davvero interessante proprio da questo punto di vista: ci spinge a cercare che cosa permette che una relazione sia davvero profonda, vissuta, generativa a prescindere dalla vicinanza fisica. Ci costringe a trovare forme che certamente non sostituiscono la fisicità ma che cercano di fare il possibile perché il cuore della relazione venga espresso. E’ una sfida che riguarda voi insegnati tanto quanto noi lavoratori online: cosa tiene, cosa vince la distanza? Un cuore che creativamente trova la strada per farsi vicino e che attende il momento in cui potrà finalmente tornare ad abbracciare le persone con cui fino ad un momento prima ha conversato e condiviso un pezzo di strada. Non esiste relazione online senza quella offline, ma questo è il momento in cui la nostra vita offline dimostra la stoffa di cui è fatta superando le barriere virtuali e utilizzando tutto quello che la nostra creatività è in grado di fare. Ho una consulenza su Skype tra qualche minuto, mi porto nel cuore questo desiderio di vicinanza. Grazie per la sollecitazione.
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Quando alla fine di febbraio ho scritto Brezza, la mia newsletter, ho ricevuto una risposta che mi ha ferito; da gennaio di quest’anno infatti ho deciso di scrivere Brezza utilizzando la terza persona e facendo cioè narrare il mese trascorso dalla voce di Celestino, il piccione del Cottage. La scelta è dovuta ad almeno tre considerazioni:
- la prima è un constatazione: quando a dicembre sono terminati i Consigli di Celestino (la lista di 52 consigli – uno a settimana per un anno – per semplificarci la vita) ho ricevuto tantissime mail che mi chiedevano di far rimanere Celestino perché era un personaggio a cui ci i affeziona facilmente;
- Narrare in terza persona mi aiuta a staccarmi dalla mia visione e mi permette di osservarmi da lontano aiutandomi a dire alcune cose che se narrassi in prima persona non direi;
- Quando o fatto il corso di scrittura autobiografica ho capito che il punto precedente era plausibile, anzi, era sacrosanto perché siamo fatti di molte voci e ognuna ha una modalità diversa di guardare la stessa realtà. Fare parlare le nostre diverse voci è un esercizio di consapevolezza davvero utile (e terapeutico)
La mail che ho ricevuto in risposta alla seconda Brezza narrata da Celestino mi diceva sostanzialmente che quella narrazione in terza persona era incomprensibile e che voi volete che sia io a raccontare la mia vita e non una voce esterna a me.
La cosa che mi ha ferito non è il “ma perché questa narrazione in terza persona?”, ma il “noi vogliamo…”, come se io fossi una sorta di giullare di corte che tenta timidamente un nuovo numero diverso da quello che fa di solito e a cui vengono lanciati pomodori perché lui è il giullare di corte e non deve fare altro da quello che ha fatto fino a quel momento.
So per certo che la persona che ha scritto non voleva ferirmi eppure a mio parere c’era un modo diverso per esprimere l’incomprensione di una scelta (o per ascoltare quella nuova voce).
Che questo sia accaduto dopo il corso di scrittura autobiografica è stato un’ulteriore felice coincidenza, perché mai come ora ho il desiderio di far parlare queste voci che mi abitano e mai come ora so che ho tutto il diritto di farlo.
Il come è l’avventura di questo periodo, perché mentre da una parte lo sto facendo con quel benedetto libro che sto scrivendo e di cui ti ho parlato qualche tempo fa, dall’altra mi sto esercitando a creare uno spazio perché questo “ascolto” mi accada quotidianamente.
Ed eccoci finalmente arrivati al punto (ora capisci perché Instagram non mi basta più per raccontarmi? ci ho messo 4 post… vedi tu!):
Cliccando sul pulsante sotto a questa sezione arriverai ad una pagina dove, appunto, sto facendo parlare le mie voci.
Funziona così: periodicamente aggiungo un esercizio di scrittura autobiografica (seguendo le indicazioni del corso di autobiografia) senza dichiarare la consegna dell’esercizio, ci sarà solo il risultato di quello che mi è stato chiesto di fare.
Se vuoi puoi entrare ogni tanto e leggere quello che ho scritto, ma non è obbligatorio, decidi tu se e quanto vuoi partecipare a questo viaggio.
E’ un modo nuovo di raccontarti di me, sia come contenuto che come modalità e l’intenzione non è quella di insegnarti nulla, solo di renderti partecipe dei miei passi.
E’ una scelta rischiosa, ma sono pronta come il giullare con i pomodori perché so il bene che mi sta facendo lasciarmi libera.
Ti abbraccio, grazie per la pazienza con cui mi hai letto fino a qui.
Rita, la giullare ri-belle
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Sì, ne è valsa la pena, ma prima lascia che ti racconti cosa è accaduto alla scrittura in questi mesi:
Dopo aver aperto la porta delle mie infinite voci e aver lavorato a lungo sia sugli esercizi che sul fantomatico “libro” che sto/stavo scrivendo ho avvertito una fatica indescrivibile e mi sono resa conto che la Rita che scrive è una Rita davvero pesante.
Non c’è falsa modestia in questa affermazione, ogni volta che terminavo un esercizio di scrittura mi sembrava di essere scesa in una zona buia di me, una zona che non avevo mai frequentato fino a quel momento e che, abitata per così tante ore, mi lasciava addosso una grandissima pesantezza di spirito. Inoltre ero arrivata ad un punto critico del “libro” che non mi faceva procedere oltre.
Così ho cercato un antidoto, non perché fosse necessario “censurare” quello che provavo, ma perché avevo bisogno di un punto di “resurrezione”. L’ho trovato nella pratica manuale.
Non potendo andare alle lezioni di ceramica e non potendo correre, avevo bisogno di un’alternativa e così oltre a seguire un programma di allenamento di mio marito, mi sono iscritta a Skillshare, una piattaforma in cui si possono imparare un sacco di cose a seconda dei tuoi gusti e di tuoi interessi. E così altre voci si sono aggiunte a quelle che già stavano parlando e il risultato è stato un grandissimo caos di voci e strumenti che aveva bisogno di essere compreso.
E’ a quel punto, ritrovandomi spettatrice di un rumore che non sapevo dirigere, che ho capito di aver bisogno di un confronto.
Ho fissato una consulenza con Chiara, la mia maestra di autobiografia intitolando la mail “Il punto morto” e ho atteso con impazienza il giorno della chiamata.
A chiamata conclusa avevo tra le mani una traccia su cui sto costruendo un nuovo spartito, uno spartito che si intitola invece “punto a capo”:
- la scrittura è un mezzo e non un esito, per questo l’obiettivo non è la pubblicazione ma il percorso.
- La scrittura è generosa e imprevedibile perché iniziamo ad utilizzarla con un obiettivo e lei ci porta altrove; io ad esempio ho iniziato a scrivere il mio “libro” per fare la guerra a mio padre e invece ci ho fatto la pace. Ecco perché la scrittura non riusciva più ad andare avanti: aveva raggiunto il suo scopo (uno scopo completamente diverso dal mio, ma di questo proverò a raccontarti in un altro momento)
- Se la scrittura chiama il dramma occorre accettarlo e accettare anche la sua risurrezione (cioè la pratica fisica e manuale).
- Forse proprio la mia incapacità di essere una sola cosa è il mio punto di vittoria ed è tempo di farci i conti.
Questo punto, l’ultimo, che sembra buttato lì è l’inizio di una rivoluzione, la mia rivoluzione che mi richiederà parecchio lavoro di cui certamente ti terrò al corrente.
E Instagram? alla fine di questi due mesi in cui non ho sentito assolutamente la mancanza delle pressioni “esterne” che lo caratterizzano, ho capito che è la stanza in cui scrittura e immagine sanno dialogare anche se con voci diverse ed è quindi una stanza da cui mi posso assentare quando voglio, ma dove posso tornare quando ho bisogno che parola e immagine diventino dialogo.
E allora se e quando vuoi ci vediamo lì.
