Il 3 gennaio ho letto un post di Leonie Dawson che mi ha colpito tantissimo. Sostanzialmente diceva che dopo aver costruito un’impresa da 5 milioni di dollari ha capito che il ruolo da CEO non era quello che voleva occupare, quindi quest’anno opererà alcuni cambiamenti molto drastici che snelliranno il suo business (anche a discapito del fatturato, che però.. parliamone ;-)). Ha deciso di farlo per due ragioni principali: la forma che ha assunto il suo business non le assomiglia più, fisicamente – e credo psicologicamente – ha avuto periodi critici e, infine, la sua famiglia sta risentendo di tutta la situazione.
Quel testo mi ha toccato profondamente, avevo da poco letto di come era riuscita a creare un’impresa milionaria, ne avevo parlato con mio marito dicendo “cavolo Calda ti rendi conto?? Dobbiamo farlo anche noi!” e poi se ne esce dicendo “fermi tutti, belli i soldi, servono e aiutano, ma io voglio anche qualcosa che non vedo più nella mia vita e questo mi rende triste”. Ci sono rimasta di sasso.
Cara Leonie, veramente stai scrivendo in una newsletter che conta 75mila iscritti che tu non vuoi andare avanti e raddoppiare magari il fatturato perché sei triste? Ma sei seria?
Ecco, il punto che mi ha scossa è proprio questo: il coraggio di scoprirsi tristi.
Il 3 gennaio (stesso giorno, guarda “caso”) ho passato una giornata un po’ lacrimosa, avevo discusso con un’amica che mi aveva ferito e la cosa aveva risvegliato in me un bisogno che da tempo avevo messo a tacere, un bisogno che riemerge tutte le volte che penso alle mie amiche più care e che in qualche modo, terminato il tempo passato con loro, riesco sempre a sminuire, spesso lo impacchetto (con i miei bei pacchetti, sia chiaro) e lo lascio da parte; spesso lo chiamo stanchezza, spesso lo risolvo dicendo “ma io ho il Calda, i figli, un lavoro così bello, incontro un sacco di gente, ricevo tantissimo da loro, sto diventando grande, mi sto scoprendo…” Poi arriva uno schiaffo e il mio bel pacchetto si strappa perché è troppo piccolo per quello che contiene (e qui non c’è customer care che tenga!).
Così, ho deciso di andare a fondo, di non mettere una benda, ma di guardare bene quella ferita e capire cosa realmente l’avesse provocata. A 34 anni l’amica che ti tratta male al massimo ti fa incavolare, non ti fa piangere;
Invece io piangevo.
É venuto spontaneo scrivere all’amica più cara che ho e così ho capito: non c’è lavoro figo che tenga, non c’è fatturato che tenga e io posso raccontarmela come voglio, ma in tutta sincerità non posso fare a meno di una compagnia concreta e quotidiana, di volti amici che non siano un assaggio sporadico di Paradiso, ma che siano costantemente appiglio, ancora, conforto, spinta e sfida, che mi ricordino che sono più di quello che faccio, che mi abbraccino quando sbaglio, che mi dicano con affettuosa schiettezza che la vita, pur faticosa, drammatica, è più grande di quel pezzetto che sto costruendo con tutto il mio impegno, passione e buona volontà.
Lo scrivo per non trovare scuse: “mettere a fuoco”, potrebbe trasformarsi in un paio di paraocchi se non ascolto quella tristezza, quel bisogno.
Ancora una volta la tristezza mi è amica, mi ha ferito, mi ha restituito il mio bisogno di felicità e mi ha rimesso in ginocchio a chiedere che quella compagnia che mi viene regalata in momenti “straordinari” diventi sempre più “ordinaria”, quotidiana.