Non sono un’esperta di linguaggio e non ho cambiato tema del mio blog, ma mi piace, dove possibile, usare le parole giuste, soprattutto quando il rischio é quello di incomprensioni, fraintendimenti e generalizzazioni. Così oggi desidero spiegare quella che per me è la grande differenza che sta alla base di un buon lavoro visivo e cioè quella tra finzione e traduzione.
Le caratteristiche della finzione (visiva)
Come ho detto tante altre volte, nell’uso di Instagram c’è un grande rischio: l’importanza estetica che nel tempo ha assunto questo canale, ha fatto sì che molte persone si focalizzassero più su questo aspetto, su una scelta estetica fatta a priori, piuttosto che sulla propria identità e sul messaggio da trasmettere. Questo tipo di scelta d’uso, alla lunga, porta a due conseguenze a seconda dell’utente: in chi costruisce il racconto artefatto si arriva inevitabilmente a ritrovarsi incastrati in una forma che toglie libertà di azione (come è successo a @1924us), una sorta di gioco di ruolo in cui uno rimane prigioniero del suo personaggio; in chi osserva, invece, piano piano si genera una sorta di fastidio misto a diffidenza che tende ad allontanare invece che far affezionare.
Cosa significa tradurre e cosa c’entra con Instagram
“É meglio in lingua originale” quante volte ce lo siamo sentiti dire parlando di un libro o di un film. Ciònonostante guardiamo e leggiamo libri tradotti, gustandoceli e immedesimandoci nel racconto. Certo non è la stessa cosa perchè certe parole, certe espressioni hanno uno spessore e una profondità spesso intraducibili, per cui manca un corrispettivo nell’altra lingua, questo però non scoraggia gli editori dalla pubblicazione o i lettori dalla lettura. Un buon traduttore però non si limita a prendere le singole parole di un testo e a cercare il corrispondente nella lingua di destinazione (quello lo fa Google translator), ma si impegna a cercare termini ed espressioni che siano in grado di trasferire – tradurre appunto – anche le suggestioni di quel testo, l’atmosfera suscitata dalle frasi, dalla punteggiatura, dal ritmo ecc…
Ecco, chi lavora bene su Instagram ha come vero interesse questo: non creare una realtà diversa o artefatta, ma tradurre in un linguaggio visivo (quindi necessariamente diverso e limitato rispetto all’originale) quello che ha deciso essere il succo della sua attività o del suo progetto.
Perché é utile tradurre?
Perché dovete immaginare Instagram come un mondo dove si parla una lingua particolare, una lingua che é fatta prima di immagini e suggestioni e successivamente di parole, un “luogo” dove il primo punto di contatto non é vocale ma visivo, dove le persone si riconoscono per affinità di sensazioni è poi si immedesimano in un approccio alla realtà (qualunque essa sia, di viaggio, di stile di vita, di modo di vivere il cibo e la cucina, di scelte di acquisto ecc..). Se l’intenzione è questa non si tratta di finzione, di artificio, ma semplicemente di un modo di descrivere la realtà adatto al mezzo e alle persone che lo utilizzano. Di più, io trovo che sia un modo intelligente e pieno di cura verso chi è lì ad ascoltare quello che abbiamo da dirgli.
Questo discorso vale per tutti?
No, ci sono profili che crescono e hanno molto séguito nonostante non abbiano adeguato la loro comunicazione visiva all’evoluzione di Instagram (ad esempio i vip o quei personaggi che vengono seguiti proprio per l’aspetto “reportistico” del loro profilo). Io credo che per ognuno vada fatto un discorso a sè che ha a che fare con identità, target, mussion, strategia ecc.. senza però ribellarsi per partito preso alle dinamiche del mezzo o aspettarsi un grandissimo successo se si decide di percorrere la strada del “io faccio le foto come capita”, perchè anche in questo caso ci vuole strategia (che non è una brutta parola, ma una parte fondamentale del processo di comunicazione) o una certa genialità.
Quindi su Instagram dev’essere comunque tutto bello e perfetto?
No, tutt’altro. L’imperfezione è quello che ci avvicina agli altri, ci rende umani e quindi non “odiabili”, ma compagni. Attenzione però, imperfetto non significa brutto, imperfetto significa vivo e quindi profondamente vero, amato, abbracciato. Si può guardare e raccontare l’imperfezione con gli occhi pieni di passione e amore per quell’umanità per quella quotidianità, la nostra, così teneramente difettosa e quindi, in ultima analisi, con occhi pieni di bellezza in grado di coglierla e mostrarla agli altri.