Il giorno in cui sono andata in Camera di Commercio per prendere informazioni sulla registrazione del marchio, miracolosamente non ho trovato fila. Ci ho messo 2 minuti di orologio. Avevo un appuntamento con un’amica due ore dopo, così mi sono infilata nel negozio Tiger che c’è in fondo a via Meravigli perché “vuoi non andare da Tiger una volta che capiti a Milano?”. Dopo aver infilato l’impossibile nel mio cestello a suon di “tanto costa solo un euro” sono andata in cassa per pagare.
C’è una cosa che faccio quasi sempre quando ho a che fare con commessi e cassieri che hanno appeso il cartellino con il loro nome, salutarli chiamandoli per nome (del resto cosa lo mettono a fare quel cartellino?).
Così, dopo aver sborsato 40€ fatti da tanti singoli “un euro”, ho salutato il ragazzo alla cassa con un sereno “buon lavoro Angelo!” (era il suo nome, non un nomignolo sdolcinato).
Mi è capitato tantissime volte di notare una reazione sorpresa e grata da parte dei diretti interessati (e forse è per questo che mi piace farlo), ma questa volta mi sono fermata a pensarci: perché uno che porta il nome scritto addosso dovrebbe sorprendersi e rallegrarsi quando qualcuno, sconosciuto, lo dice ad alta voce?
Non lo so se è così, ma forse in questo modo uno si ricorda di esistere, risvegliato da quel suono così familiare, ma spesso scontato.
Ecco perché, a prescindere dalle ragioni professionali, sono felice di aver registrato il marchio delle Myselfie. Perché quando leggo quello che mi scrivete negli ordini è come se tutte le volte leggessi quel nome sul cartellino e lo pronunciassi ad alta voce.
Così, ho capito perché, quando vi spedisco a casa le Myselfie, sono sempre agitata: perché desidero suscitare in vuoi quel sorriso grato che ha solo chi riconosce di esistere.
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Un abbraccio stretto-stretto