Il 29 luglio del 2005 se ti trovavi sul lago di St. Moritz potevi notare due ragazzi seri e pensierosi seduti sul prato opposto alla chiesetta di pietra. Lei di 22 anni, lui di 23. Lei era lì a fare la barista in un hotel, lui aveva fatto quasi 200 km con una moto scassata per andare a trovarla. Non erano fidanzati, lo erano stati per 4 anni fino ad un anno prima di quell’incontro, poi qualcosa si era rotto, le differenze erano diventate delle armi che giorno dopo giorno avevano fatto a pezzi l’innamoramento di qualche anno prima, lasciando il posto ad una profonda spaccatura. Una spaccatura che li aveva allontanati fino a non vedersi più per un anno intero nonostante abitassero nella stessa piccola città. Quel giorno assolato di luglio, su quella collinetta verde i due ragazzi dalle facce serie si stavano dicendo che, dopo un anno di lotta e di trasformazione individuale, desideravano riprendere il percorso insieme.
Dopo tre anni, nello stesso mese, i due ragazzi si stavano sposando. Il resto della storia più o meno la sapete.
Passione e sogni non bastano
Mio marito dice che è stato il fidanzamento più triste della storia e io sorrido grata del fatto che a unirci di nuovo e definitivamente fosse stato qualcosa di più di una passione giovanile, di sogni condivisi e di un banale “senza di te non ci sto più..”. Erano solide ragioni e l’esperienza che mi facevano dire che quello lì, così diverso da me, era la compagnia giusta per la mia realizzazione; di quelle differenze ero profondamente consapevole (le avevo viste tutte e avevo pianto per ciascuna di loro), ma mai come in quell’anno mi ero resa conto di quanto fossero a me necessarie per diventare la donna che desideravo diventare. Così ho preso lui e tutte le sue differenze come se fossero il dono più prezioso di sempre e mi sono rimessa in cammino.
Ad oggi è ancora la scelta migliore che io abbia mai fatto.
Cosa vuol dire essere creativi “per lavoro”
Durate la mia settimana di “social-silenzio” ho pensato a quante volte ci ripetiamo che perché le cose funzionino ci vuole passione, bisogna crederci, non dobbiamo mai smettere di sognare e mai come in quei giorni ho capito che ci raccontiamo un sacco di palle perché nessuna di quelle tre cose ha la forza di sostenere un progetto.
Appartengo da sempre al mondo della creatività e sento di farne parte anche ora che non faccio più nulla di manuale e più passa il tempo più mi sembra che ci sia una grandissimo fraintendimento nel concepire la creatività come qualcosa di semplicemente passionale, legato al talento e ai sogni. Non conto più le mail o i messaggi in cui mi viene ripetuto “è bello sapere che un sogno può diventare un lavoro” e io penso che non ho mai sognato questo lavoro, non l’ho neanche mai immaginato, ho semplicemente lavorato duro facendo ogni giorno quello che era necessario fare perché le cose risultassero ben fatte e la ragione per cui lo facevo era semplice: essere creativa per lavoro significava che le mie idee dovevano essere vendibili.
Ta dan! Ed ecco che i sogni diventano “sales page”, che la passione si trasforma in “calendario editoriale” e che il “crederci” diventa studio approfondito di tutte quegli argomenti che rendono un’idea vendibile e una persona – incapace di vendere ai suoi parenti più stretti – in grado di portare a casa lo stipendio proprio grazie a quelle idee incanalate nella forma più ragionevole.
Non è la passione che fa funzionare le cose, la passione va e viene, si spegne al primo fallimento o alla quarta fattura e “crederci forte” non significa nulla se non è accompagnato da un costante desiderio e dalla volontà di capire e fare meglio. C’è solo una strada perché una cosa funzioni: abbracciare la fatica del fare quotidiano, del fare anche quello che ci sembra così lontano dal nostro modo di essere, avere il coraggio di cambiare idea sapendo che è l’unica forma per crescere sul serio.
Non vuol dire amare meno, significa amare davvero.